C´E´ ANCHE LA CINA DELLE RIVOLTE CONTADINE – “L’apertura dei mercati agricoli crea tensioni. Ho visto McDonald’s presi d’assalto. Ma le opportunità ci sono e sono grandi”

Corriere della Sera
Danilo Taino
19 luglio
2004

La Cina, oramai, non è più un fenomeno. Non perché la sua crescita non sia più eccezionale. Anzi. Ma perché sta diventando “normale”, occidentale per molti versi. Per dire: cominciano a vedersi proteste popolari, le banche non funzionano, si gonfiano bolle speculative. E’ insomma meno impenetrabile e totalitariamente stabile di quanto si possa pensare da lontano. Ragione per starne alla larga? “Al contrario”, sostiene Salvatore Accame, un consulente con una lunga esperienza di Asia, oggi responsabile del Far East della Contract Manager, società di temporary management. “Rischi politici non ne vedo – dice Accame -. Se oggi si fa un investimento in Cina, per tre-cinque anni non si guadagna. Questo i dirigenti cinesi lo sanno e sono impegnati a garantire la stabilità politica, diversamente nessuno investirebbe più”.

Accame, che frequenta il paese dal 1996 e passa lunghi periodi tra Pechino, Shanghai e il Guangdong per stabilire l’operatività di aziende italiane, racconta che l’integrazione della cina nella Wto – l’Organizzazione Mondiale del Commercio – ha creato una serie di problemi di competitività alle aziende occidentali ma non è stata indolore nemmeno per i cinesi.

“L’apertura dei mercati agricoli – sostiene, – sta per esempio creando tensioni non da poco tra i contadini che soffrono della concorrenza estera e fanno sempre più fatica a vendere i loro prodotti sul mercato interno. Per dire: la catena di supermercati Carrefour, che ha una presenza notevole in Cina, importa l’80% dei prodotti alimentari che ha sugli scaffali. Queste situazioni hanno già portato a manifestazioni di protesta in piccole città. Non se ne parla mai, ma la cintura a Nordovest del fiume Yangtze vive realtà drammatiche. Nel paese ci sono stati casi di assalti ai ristoranti McDonald’s e Kentucky Fried Chicken. Io stesso ho visto fenomeni di vandalismo di contadini disperati contro proprietà dello Stato, per esempio i tralicci delle telecomunicazioni”.

Contraddizioni che esplodono di tanto in tanto, e con violenza, ma che per ora Pechino riesce a controllare. D’altra parte, nelle aree a tasso di sviluppo più accelerato le tensioni sono di segno diametralmente opposto. “Che in certe zone l’economia sia surriscaldata è fuori discussione – sostiene Accame – A Shanghai e Pechino si vedono interi palazzi nuovi completamente vuoti e ci si chiede quanto tempo occorrerà per riempirli. Gli immobiliaristi e i grandi speculatori sono ormai indebitatissimi”. Una bolla che si gonfia sempre di più, insomma. Inoltre, il sistema creditizio è da ristrutturare dalla radici. “Le banche – dice ancora Accame – non riescono a rientrare dai prestiti. Le sofferenze ufficiali sono attorno al 21% ma quelle reali sono probabilmente tra il 40% e il 45%. Si parla di 40-50 miliardi di dollari l’anno per i prossimi anni necessari per riequilibrare il sistema bancario”.

E’ il capitalismo della fase nascente, viene da dire, con le sue esagerazioni, le sue ingiustizie, i suoi rischi. Da far paura? “Se si guardano queste cose nell’insieme, posso fare un po’ paura”, ammette Accame. Ma molto più paura, aggiunge, deve fare alle imprese italiane e occidentali la prospettiva di rimanere tagliate fuori dalla nuova frontiera e dall’opportunità di globalizzarsi che la Cina offre. “Se le imprese italiane vogliono pensare al medio e lungo periodo senza spaventarsi – afferma – devono monitorare la Cina, devono pensare alla Cina. Che si corazzino ma vadano in Cina: chi non affronta il nemico sul suo terreno ha perso in partenza ed è destinato a declinare. Tra l’altro, i cinesi non sono come i giapponesi, rigidi: la loro mentalità è simile a quella italiana, hanno fantasia, amano il caos”.

Accame dice che, in Italia, rimangono troppi preconcetti sulla Cina, spesso considerata un paese di imbroglioni e di falsificatori. “La realtà – afferma – è che i cinesi sono bravissimi e per fare affari ci si deve confrontare sul loro terreno. E per questo bisogna attrezzarsi”. Ci si può andare per produrre in outsourcing se il proprio prodotto è impossibile da copiare. Ci si può andare in joint-venture, ma questa è ormai una fase piuttosto superata, dice Accame. E ci si può andare con investimenti diretti al cento per cento, magari in zone industriali speciali con il parco di Sozhu, cento chilometri a ovest di Shanghai, un’area attrezzata con le infrastrutture più moderne, dove il costo della manodopera è basso e l’Irpeg è al 15% ma per i primi due anni di utile è a zero, per i due successivi è l 7,5% e per chi esporta almeno il 70% della produzione scende poi stabilmente al 10%”.

“Ma in ogni caso – afferma Accame, che nel paese ha portato numerose imprese italiane – in Cina l’arte indispensabile è quella della negoziazione. Con i top manager ma anche con i livelli intermedi. Ci sono insidie attraverso le quali è opportuno essere guidati da chi le conosce. Ma l’approccio mentale deve essere aperto, senza pregiudizi: stabilire rapporti umani è imprescindibile”. Le contraddizioni e le bolle speculative vengono dopo: d’altra parte, dice Accame, quando mai un imprenditore italiano si è fermato di fronte a un po’ di instabilità?”.

Danilo Taino